Ehi ciao, buona domenica. Ci tengo molto che tu sia qui anche oggi, perché a aprile festeggio non solo il mio compleanno ma anche ben 40 anni in compagnia dell’emicrania, che sarà quindi l’argomento del mese. Non lo faccio solo per raccontarti qualcosa di me che forse non sai, ma perché ho incontrato moltissime persone che soffrono di questa patologia e che ogni giorno patiscono non solo il dolore ma anche le difficoltà legate a ignoranza, pregiudizio e leggerezza, in famiglia, tra amici e nei luoghi di lavoro. Ho pensato, quindi, di usare questo spazio anche per lasciare la mia testimonianza su una malattia molto più impattante di quello che si pensa. Spero che la lettura possa esserti utile, qualunque sia la tua condizione. Mettiamo della musica confortevole:
4 chiacchiere (su termini, pregiudizi e cucchiai di energia)
87 è il numero degli attacchi che ho avuto nel 2023, che sono tantissimi ma sempre meno dei 95 del 2022 e dei 110 del 2021 (sono diminuiti grazie alla menopausa, unica gioia dell’invecchiamento 😑). Lascio fare a te la media matematica, ma è chiaro perché nel mio caso si parla di emicrania cronica. Iniziamo a fare un po’ di chiarezza mentre ti racconto la mia esperienza.
L’emicrania è un tipo di cefalea primaria (diversa dalle cefalee secondarie, cioè dipendenti da altre patologie): è la manifestazione dolorosa di una malattia neurologica estremamente complessa che coinvolge la corteccia prefrontale e rende il cervello emicranico estremamente sensibile e iper-reagente. Immaginalo come un “guardiano” troppo vigile, che interpreta ogni segnale ricevuto come un potenziale pericolo. Di fronte a stimoli di varia natura, che nelle altre persone sono totalmente innocui, lancia un allarme immotivato alle terminazioni nervose generando una reazione dolorosa causata dalla dilatazione dei vasi intracranici, che si infiammano; più i vasi si dilatano, più i sensori delle meningi si attivano, in un circolo vizioso che può durare fino a 72 ore ed essere accompagnato da altri disturbi, come nausea, vomito, fotofobia e debolezza.
Le cause della cefalea non sono chiare; forse questo difetto di comprensione degli stimoli deriva da una disfunzione dei neurotrasmettitori. Certamente esiste una componente genetica e di familiarità. L’emicrania è una malattia soprattutto femminile (se fosse il contrario, probabilmente a quest’ora le cose sarebbero molto diverse, tanto per cambiare!) e rappresenta la terza patologia più frequente e la seconda più disabilitante del genere umano secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quanto costa l’emicrania? Moltissimo.
Devi considerare i costi diretti (visite, farmaci), indiretti (perdita di giornate lavorative, tempo sottratto ad attività familiari e personali) e quelli nascosti, dati dall’impatto psicologico e sociale su persone malate e famiglie.
“In Italia un recente studio (EEHTA CEIS) ha evidenziato come il costo diretto annuale di Chronic Migraine (CM) risulta essere 4,8 volte superiore a quello di Episodic Migraine (EM) (€ 2.037 contro € 427).” Prof. Francesco Saverio Mennini (Direttore EEHTHA del CEIS Facoltà̀ di Economia, Università̀ degli Studi di Roma Tor Vergata)
Alla diagnosi si arriva quasi sempre molto tardi: pesano ancora molti pregiudizi (“che sarà mai, è solo un mal di testa!”), scarsa informazione anche dei medici di base e poca conoscenza degli strumenti a disposizione per giungere a un eventuale percorso terapeutico. Io stessa ho realizzato l’entità della mia patologia solo nel 2017, dopo un viaggio negli Stati Uniti durante il quale ho avuto l’emicrania praticamente tutti i giorni, e soprattutto dopo decenni di farmaci assunti in enorme quantità e tanta sofferenza. Da quel momento ho iniziato a farmi seguire dal Centro Cefalee dell’IRCSS Mondino di Pavia, dove ho scoperto di soffrire di emicrania di tipo ormonale ad alta frequenza mensile, farmacoresistente e estremamente suscettibile a innumerevoli trigger (BINGO!). Ho scoperto anche che, purtroppo, oggi non esiste una cura ma solo terapie preventive (che su di me hanno funzionato poco e in modo altalenante) e terapie sintomatiche; negli anni ho assunto come profilassi beta-bloccanti, anti-epilettici, calcio-antagonisti e anti-depressivi. Le altre terapie previste dai protocolli me le sono risparmiate, perché nel frattempo la menopausa ha reso la situazione leggermente più sopportabile, sia per il numero degli attacchi che per la loro intensità. Ho sperimentato anche reazioni più o meno gravi ai farmaci e effetti collaterali, che hanno reso tutto più difficile. Noi emicraniche/ci non ci facciamo mancare mai niente.
Nel 2020 ho avuto l’attacco peggiore di sempre e temuto seriamente che mi stesse venendo un ictus, ma è accaduta anche una cosa positiva: dopo decenni di battaglie di medici e associazioni la legge 81/2020 ha riconosciuto finalmente la cefalea cronica come malattia sociale. Un enorme passo avanti per uscire dall’invisibilità e vedersi riconosciuto lo status di persone malate. Ma era ancora uno strumento monco della parte forse più importante, cioè come individuare nuovi metodi di gestione della patologia. Solo nel 2023 sono arrivate finalmente le Linee di Indirizzo che forniscono alle Regioni fondi e indicazioni per individuare progetti di presa in carico dei pazienti che siano omogenei sul piano nazionale, tempestivi e efficaci.
Nel 2022, su suggerimento della mia neurologa, ho tentato la strada difficilissima del riconoscimento dell’invalidità e l’ho ottenuta. L’ho fatto per due motivi: una questione di principio, e cioè vedere riconosciuta nero su bianco la mia condizione, e la speranza di avere un chance in più per rientrare nelle graduatorie del telelavoro (che nella mia amministrazione funziona su bando annuale per posti limitati, con un sistema a punti da guerra tra poveri). Per fortuna la Regione Lombardia è stata una delle poche in Italia a dotarsi di tabelle per il riconoscimento dell’invalidità a pazienti con cefalea cronica ben prima dell’approvazione delle Legge (vedi perché è importante l’omogeneità che dovrebbe derivare dall’applicazione delle linee di indirizzo?) e la somma matematica dei vari punteggi, più la giusta “sensibilità” della Commissione esaminatrice, ha fatto il resto. Ma sostanzialmente è un terno al lotto, per questo non mi dilungo sull’argomento, rimandandoti agli approfondimenti linkati in fondo se hai bisogno di altre indicazioni.
Detto tutto questo, oggi voglio provare a raccontarti cosa significa ognuna di quelle X nella vita di una persona emicranica (elenco ovviamente sintetico, sennò stiamo qua una settimana):
uno o più farmaci da assumere durante l’attacco
un giorno di lavoro potenzialmente perso (su questo torneremo)
una cena fuori, un cinema, un’attività sportiva, una passeggiata, un viaggio, la gestione di casa e figli, un impegno a caso, una qualsiasi attività diversa dallo stare sedute in poltrona o dove meglio si riesce a gestire il proprio attacco, saltati senza preavviso (spesso anche mentre stai per uscire o sei per strada o appena arrivata a destinazione, e sono cavoli tuoi)
altrettante volte in cui devi dire a colleghe e capi, a un’amica, alla tua famiglia che non puoi fare quello che dovevi fare o che devi tornare subito a casa
altrettanti giorni in cui smaltire gli effetti collaterali dei farmaci (vertigini, debolezza, nausea, disturbi intestinali ecc. ecc.) e la stanchezza post-attacco
altrettanti bocconi amari di frustrazione, tristezza, ansia, rabbia e depressione da ingoiare
Parafrasando John Lennon, la tua vita è ciò che ti succede mentre io, molto probabilmente, gestisco un attacco.
Capitolo trigger, grosso come una casa: i trigger sono i fattori potenzialmente scatenanti. Quelli tipici posso essere alcuni cibi, le condizioni meteo, lo stress o gli sbalzi ormonali. I miei mi costringono a slalom esistenziali e innumerevoli rinunce: prima di tutto certi profumi, motivo per cui devo evitare come la peste le persone che ne abbondano; non si contano le volte che dopo ore tra preparazione e trasferte mi scontro a lavoro con qualcuna di loro e sono fregata. Le alternative sono restare lì e sperare che i farmaci facciano effetto velocemente o tornare a casa, vanificando tutto e rischiando la pelle guidando in stato semi confusionale. Questo, magari, dopo essere uscita da un attacco di tre giorni, sapendo che ne avrò per altri tre (ne approfitto per ringraziare chi non si profuma quando sa che deve incontrarmi - tipo la mia collega Barbara; Barbara, se stai leggendo, grazie, tvb ❤). Altre situazioni tipiche: cambiare posto a tavola quando esco a cena con altre persone o vado al cinema, abbandonare a metà la colazione al bar, respirare dalla bocca se il bagno dell’ufficio è stato appena pulito, evitare le profumerie, i fioristi e i ahimè i centri yoga (unica attività che riesco a praticare ma devo fare a casa per via dell’uso degli incensi o dei diffusori di essenze). Un’altra cosa che mi limita moltissimo è l’aumento della pressione sanguigna intracranica, che tradotto significa: non poter fare praticamente alcuna attività fisica se non yoga o pilates molto molto basici, meglio a casa perché non posso pagare abbonamenti che spesso saltano perché non sono in condizione (“eh, ma ti farebbe bene fare dello sport!” “eh, graziearca’, meno male che ci sei tu a ricordarmelo.”); rischiare un attacco se mi agito, se mi spavento, se mi incazzo o parlo a voce troppo alta, a volte anche se mi piego per allacciarmi le scarpe! ma soprattutto non poter piangere. Spero tu capisca quanto sia frustrante doversi trattenere guardando un film o non potermi mai sfogare con un bel pianto liberatorio. MAI UNA GIOIA.
Le malattie come la mia non lasciano molta possibilità di scegliere quello che puoi o non puoi fare perché si vive costantemente sotto scacco. Un attimo prima stai bene, quello dopo sei ko. Devi quindi valutare attentamente quali rischi correre. E’ per questo motivo che tendo a fare vacanze molto tranquille e in posti rodati perché spesso su sette giorni almeno la metà sono a rischio (i viaggi e la loro stessa preparazione sono un altro trigger molto forte, come tutte quelle attività che favoriscono un’altra condizione che ci caratterizza: l’ansia anticipatoria). E’ anche per questo motivo che ti metto in guardia da personaggi che mescolano la propria condizione a un certo attivismo performativo, legato a doppio filo al profitto. L’invalidità non può essere un “mestiere” da influencer e la divulgazione, quella seria, ha bisogno sì di fonti di sostentamento ma direi che pubblicizzare make-up o mutande non dovrebbe essere tra queste. È l’unico caso in cui se leggo ADV in un contenuto social io smetto immediatamente di seguire. E ne approfitto anche per suggerirti di osservare con spirito critico e consapevole l’utilizzo spesso esagerato della parola “trigger”, ora che hai letto alcuni esempi di cosa davvero significa. Ci si preoccupa tanto di non turbare gli animi di nessuno, facendo attenzione a ogni singola sillaba e desinenza e parola e tono di voce che usiamo, e poi si svilisce il significato di un termine che per me è un chiodo arroventato conficcato nella testa che mi costringe all’immobilità per ore o giorni. Perdonami la vena polemica, ma se ogni cosa è un trigger, nulla più lo è. Nessuno più di me rispetta le sofferenze altrui, ma dovremmo forse riappropriarci del concetto che c’è il dolore, c’è il malessere, c’è il fastidio, e ci sono cose che fanno parte della vita che potremmo farci scivolare addosso senza farne un dramma eccessivo.
Se hai letto fin qui capirai che per chi vive una condizione come la mia è fondamentale gestire con occultezza le proprie energie. Lo spiega bene la teoria dei cucchiai.
Ogni attività che svolgiamo richiede un certo quantitativo di “cucchiai di energia”; le persone sane hanno cucchiai in grande quantità, chi soffre di patologie croniche possiede cucchiai limitati e deve quindi dosarli con grande attenzione. Io, per fortuna, anche quest’anno ho ottenuto il telelavoro, per cui almeno un tot di cucchiai 4 giorni su 5 me li risparmio. E se ti stai chiedendo se non sarebbe meglio il lavoro agile (istituto più moderno e flessibile) be’, me lo chiedo anche io, ma al momento è considerato una gentile concessione da elargire per pochi giorni all’anno e a fronte di un delirio burocratico. Finita l’emergenza pandemica, il lavoro a distanza è ancora considerato, spesso, lavoro di serie B e questo è il secondo stigma che personalmente patisco e che non aiuta il mio faticoso equilibrio psicologico. Eppure sarebbe tutto molto logico: eliminando il più possibile gli spostamenti e tutto ciò che li precede e li segue, e restando in un ambiente protetto, la gestione di un attacco è più facile e ti permette di essere operativa lo stesso identico numero di ore di chi timbra il cartellino (anzi, a volte anche di più, come sa bene chi lavora da casa, dove gli orari non esistono). Per far funzionare questo sistema servono però due elementi fondamentali: la misurazione reale di obiettivi e risultati e la fiducia. Magari nella prossima vita. Nel frattempo, chi non è fortunato come me è costretto a mettersi sempre in malattia, così invece che qualche ora si perde un giorno intero di lavoro, geniale direi! (mi taccio sulla totale inadeguatezza rispetto a questo tema di Uffici Risorse Umane e Medici del Lavoro per carità di patria).
E veniamo alla domanda delle domande: noi siamo la nostra malattia?
“…Sophie sa, e lo sa per davvero, che per il Solomon-che-lei-ama, lei non è solamente il suo corpo o quello che c’è dentro il suo corpo. Che la malattia è una cosa che hai e non una cosa che sei.” David Foster Wallace, Solomon Silverfish
L’immenso DFW, che, ahimè, ne sapeva qualcosa, la pensava così e questo è ciò che molte persone come me si impegnano ogni giorno a dimostrare (e a credere, faticosamente), ma non possiamo farlo da sole se nessuno se ne accorge. Ma perché è così difficile uscire dall’invisibilità? Banalmente, anche perché siamo estremamente allenate a sopportare il dolore e a mascherarlo (“Ti trovo benissimo!” frase tipica che ascolti mentre ti senti morire), e spesso siamo malate anche di presentismo, cioè tendiamo a lavorare o fare cose anche quando non dovremmo, fingendo di stare bene per non dover combattere il senso di colpa per l’ennesimo “non posso” o le reazioni di scetticismo. Lo stigma del pregiudizio è quello che ci costringe a minimizzare, nascondere l’attacco, eccedere nei farmaci per essere performanti. Io ho imparato a farlo molto meno ma faccio parte di una generazione culturalmente senza troppe speranze da questo punto vista, spero che le cose saranno più facili in futuro. Insomma, che si riesca a fare vita di comunità oppure no, la condizione del paziente afflitto da dolore cronico è, sostanzialmente, quella di una gigantesca solitudine perché quel numero 87 è un traguardo realizzato a fronte di tante limitazioni. Ci sarebbe da dire qualcosa anche su altre conseguenze “fisiche” dell’immobilismo cui sono costretta da anni (per esempio la pessima forma fisica e alcune patologie legate alla postura scorretta) ma a questo punto mi fermo, sperando di essere riuscita a farti scoprire qualcosa in più; mi permetto solo di lasciarti qualche suggerimento.
Se hai più di 5 attacchi al mese resistenti ai sintomatici, inizia tenere un diario, poi magari prenota una visita a un centro cefalee (tasto dolente: le liste di attesa possono essere lunghissime con il SSN), parlane apertamente in famiglia e con gli amici, non vergognarti, non esagerare con i farmaci (esiste anche la cefalea da rimbalzo, attenzione!) e pretendi rispetto per la tua condizione, ovunque.
Se vuoi aiutare chi ne soffre, apriti all’ascolto, resisti alla tentazione di giudicare, contribuisci a creare una ambiente familiare e di lavoro accogliente e inclusivo; stare accanto a chi vive tante limitazioni può essere faticoso, doloroso e frustrante ma MAI E POI MAI dovrai pronunciare frasi tossiche tipo “se vuoi puoi, tirati su!” che non fanno altro che colpevolizzare chi non può. A noi emicranici e emicraniche basterebbe solo una cosa: empatia, per quanto possibile. È l’unico lascito positivo di questa condizione: imparare a mettersi nei panni degli altri e gioire dell’incontro con chi ne è capace. In fondo è ciò che vogliono tutte le persone con una qualsiasi disabilità, solo che la nostra non si vede.
Ti metto qui un po’ di link utili, se vuoi approfondire:
Classificazione internazionale delle cefalee
Emicrania: una malattia di genere
Impatto economico e sociale dell’emicrania in Italia
Fondazione CIRNA e Alleanza Cefalalgici
European Migraine & Headache Alliance
Intervista alla d.ssa Cristina Tassorelli (Istituto Mondino)
E se vuoi parlarne, chiarirti dei dubbi o anche solo smadonnare in compagnia, scrivimi, lascia un commento o mandami un messaggio.
Cose da cliccare, guardare, gustare, salvare
(per distrarci dal dolore, su di me funziona!)
Nella sfortuna che mi è capitata, ho avuto almeno l’enorme culo di non patire l’uso degli schermi (ovviamente con moderazione e in caso di attacco non grave) a parte il non trascurabile fatto di ritrovarmi dopo tanti anni con mano e collo fuori uso, perché l’unica attività che mi distrae davvero mentre aspetto che mi passi un attacco o mi riprendo dagli strascichi, è svagarmi con lo smartphone, rigorosamente seduta perché stare sdraiati o dormire è peggio (te l’ho detto che mai una gioia). E’ questo il motivo per cui, per esempio, nel 2018 ho aperto un profilo su Instagram e da lì ho iniziato ad appassionarmi alla condivisione di contenuti per me imperdibili. Vado veloce che l’ho fatta anche troppo lunga, podcast, libri e serie tv le rimandiamo alla prossima, oggi ti segnalo solo un po’ di link meritevoli:
dove chiederò il trasferimento quando mi negheranno il telelavoro (non tutte le AI verranno per nuocere!)
video che io non posso guardare ma tu sì!
cose che sembrano facilissime ma non lo sono (come gestire con un attacco in pubblico)
chissà se questo allenamento è alla mia portata
c’è ancora del bello su Facebook
un colibrì spettacolare
una lista della spesa come non ne hai mai viste
un profilo da seguire
un canale YT da perderci le ore
la meraviglia di stare insieme che, alla fine, è sempre la cosa più bella di tutte
Infine, il solito screenshot (il resto lo trovi qui): Olivia Laing nel suo libro Città sola racconta la solitudine alienante dell’osservare la vita che scorre altrove da sé, ma anche come questa condizione possa diventare spinta creativa e creazione di connessione con gli altri. Io ci provo, anche in questa newsletter.
Questa è la Controra più complicata che abbia mai scritto, spero di averlo fatto con chiarezza. Ti aspetto nella prossima stanza degli ospiti, che accoglierà un’amica che dall’emicrania ha tirato fuori qualcosa di più che buono. Ti consiglio di non perderla, stammi bene🌸
Controra è gratuita, ma se vuoi supportare le mie spese oculistiche per le diottrie perse in anni di ricerca di contenuti, puoi sempre fare quella cosa del caffè (se cogli la citazione ti voglio molto bene!)
E se vuoi scrivermi io rispondo sempre, mica come chi lo dice e non lo fa!
Grazie Stefania per questa testimonianza. Mi sono sempre vergognata dei miei attacchi di emicrania, ne soffro da quando ho 15 anni, mi sono ritrovata in tantissime delle cose che hai scritto.
Un abbraccio
Grazie Stefania… mi sono ritrovata (purtroppo) in tutto quello che hai scritto, anche se la mia malattia cronica non è emicrania ma endometriosi. I problemi sono gli stessi: ritardi diagnostici, medici impreparati, tanto tempo e soldi spesi in terapie inutili, vita sociale ridotta al minimo. Pure io ci ho provato a scriverne, e tutti i trigger point del mio corpo si sono fatti sentire… spero che a te non sia venuta l’emicrania 😅
Sono convinta che parlarne serva sempre 💕