CONTRORA #19 "Superpoteri"- parte 1
Alessandra, Marika, Claudio, Francesca, Valentina e Francesco.
Ciao, buona domenica! Finalmente mi sono lasciata alle spalle un’estate faticosissima e che si è conclusa in bellezza con il Covid, e questa è Controra, la newsletter che ti fa evadere dai bollori algoritmici dei social, dove le stagioni non esistono e ci sono sempre 40 gradi. Se mi leggi da un po’, forse ricorderai che questo mese sarà diverso da tutti gli altri, diversamente sappi che il programma prevede una delle mie solite idee strampalate e poi a ottobre si torna alla normalità (direi per sempre, dato che questa idea è stata davvero molto faticosa da portare a termine). Se vuoi leggermi nel formato classico fatti un giro qui!
Settembre ormai è considerato il nuovo Capodanno, il momento in cui ci si lancia in buoni propositi da abbandonare dopo cinque minuti; inutili, tipo questo. Io, invece, ho deciso di ospitare buone pratiche che ci aiutino nelle difficoltà a venire, vecchie e nuove, di cui abbiamo avuto parecchi assaggi negli ultimi tempi: ansia da clima impazzito, rappresentanza politica inesistente, desiderio di fuggire su un’isola deserta e bisogno di non cedere alla sconfitta della disillusione. Gli Avengers per adesso non ci sono più (il ritorno è lontano e speriamo non sia solo un gran raschiare il fondo del barile), la sensazione è che i cattivi vincano sempre e perciò tocca arrangiarsi. Sono convinta che ognuno di noi ha un superpotere che ci aiuta, ogni giorno, a fare quello che va fatto, e quindi ho invitato un po’ di gente impegnata in ambiti diversi e ho chiesto loro di raccontarcelo questo superpotere, condividendo con noi le proprie strategie di sopravvivenza. Quando mi è venuta questa idea, ho saputo subito chi avrei voluto ospitare, ma non mi sarei mai aspettata che mi dicessero praticamente tutti sì, e questo è il motivo per cui una sola domenica non basterà. So che ti chiedo uno sforzo in più rispetto al solito, perché tra una settimana dovrai riprendere le fila del nostro discorso, ma spero sia come quando non esisteva il binge watching e cioè che l’attesa ti faccia apprezzare ancora di più quello che leggerai e su cui avrai tempo di riflettere.
Ne approfitto per ringraziare davvero di cuore anche qui, pubblicamente, chi ha partecipato al mio progetto impegnando il proprio tempo; non è una cosa scontata ❤.
Come vedrai, ognuno ha contribuito secondo il proprio personalissimo stile, a volte abbiamo dialogato, altre ho lasciato la parola solo a loro. Buona lettura.
Alessandra Farabegoli
L’idea di questo settembre speciale l’ho avuta qualche mese fa leggendo questa uscita della newsletter Viaggio, parlo, scrivo nella quale Alessandra condivideva il suo scoramento e si chiedeva: “a cosa serve?”. Leggendo, pensavo che questo grido d’allarme comune ha una sua energia che andava in qualche modo incanalata e condivisa, e quindi eccoci qui, non potevo che iniziare da lei. Se vuoi conoscerla meglio la trovi su LinkedIn e sul sito di Palabra, l’agenzia che ha co-fondato; e, infine, anche su Instagram, dove, usando le sue parole, “con andamento irregolare condivido camminate, disegni, sbrocchi.”
Ciao Alessandra, benvenuta. Nella bio di Substack ti definisci “Ecologa della comunicazione, femminista, viaggiatrice” e so che sei impegnata su molti fronti: ti occupi di email marketing e trasformazioni digitali, e nella tua newsletter condividi spesso l’impatto che hanno sulla tua quotidianità molte delle situazioni preoccupanti che ci assillano e che sembra non ci lascino molta scelta se non, come dicevo prima, un gigantesco pessimismo. Raccontaci qual è il tuo superpotere:
[rido] parli di pessimismo, ma in me l’osservazione sconsolata della realtà – il pessimismo della ragione – convive da sempre con lo sconsiderato ottimismo di una che comunque cerca di fare “quel che va fatto”, di parlare ad alta voce, di perseguire un presente e un futuro più aperti, solidali, basati sulla scienza e non sulle superstizioni. Non so se siano stati i miei sette anni da scout, l'imperativo a lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato, il mantra “la guida e lo scout sorridono e cantano anche nelle difficoltà”, o se nello scoutismo ho semplicemente incontrato principi affini al mio modo di essere; fatto sta che io sono una che, anche quando è incazzata, si rimbocca le maniche e affronta le cose. Di certo devo molto all’avere avuto genitori che non hanno mai limitato i miei orizzonti per il fatto di essere una femmina. Ecco, il mio superpotere è che credo di poter fare la differenza, quindi hop hop! e #bastalagne sono le mie formule magiche.
Direi che questa formula magica ha funzionato benissimo, visto quello che hai raccontato nella tua newsletter di maggio, a un anno dalla terribile alluvione che ha colpito così duramente i vostri territori. In quei giorni, tuo figlio Guido e un amico hanno supportato l’associazione Micromondi - che coordinava richieste e offerte di aiuto nella zona di Ravenna - sviluppando un modulo informatico per visualizzare questi dati su una mappa. Qualche mese dopo, avete saputo che la Presidenza della Repubblica lo aveva insignito del titolo di “Alfiere della Repubblica”. Mi fa piacere condividerlo sia perché sono, a questo punto, a soli due gradi di separazione dal nostro adorato Presidente 🥰, sia soprattutto perché uno dei superpoteri più forti che abbiamo, come genitori, è la consapevolezza di avere seminato bene. Dei giovani e delle giovani ragazze si sente spesso parlare in termini davvero poco lusinghieri, e invece c’è davvero tanto di cui ben sperare. Che ne pensi?
Le lamentazioni sui giovani d’oggi sono vecchie quanto l’umanità e sono figlie della paura di invecchiare, del desiderio di attribuirsi saggezza ed esperienza più di quanta ne abbiamo, e del desiderio di esercitare autorità su chi ha (ancora) meno potere di noi: le archivierei senza perderci tempo e senza amplificarle più di quanto meritino. La nostra responsabilità di genitori / insegnanti / adulti è innanzitutto di dare il buon esempio e offrire a chi sta crescendo degli spazi di autonomia, sperimentazione, responsabilità. Un po’ meno prediche, un po’ più buon esempio: quando ho detto a mio figlio “vestiti che andiamo a spalare”, e poi lui è finito a lavorare alla mappa per il coordinamento dei volontari dell’alluvione, io non sarei stata credibile e forse lui non si sarebbe alzato dal letto se negli anni io non fossi stata una madre che, quando serviva, si assumeva la responsabilità di fare un passo avanti, fosse anche solo per accompagnare un gruppo di adolescenti a fare un’escursione in montagna. I ragazzi e ragazze che ho incontrato io in questi anni – studenti delle medie e delle superiori di una città come Ravenna, né piccola né grande, certo un contesto in cui c’è ancora senso civico e una certa impronta progressista – si pensano in un orizzonte europeo o anche più ampio, hanno compagni e compagne di origine non italiana che sentono uguali, e per loro è normale prendere atto che orientamento sessuale e appartenenza di genere possono assumere forme molteplici. Ricordo il mio stupore quando mi sono accorta che per mio figlio e i suoi amici maschi era del tutto normale, giocando online, impersonare anche ruoli femminili: per me e le donne della mia generazione, ribellione e autoaffermazione era – e spesso è tuttora – rivendicare il diritto di fare cose “da maschi”, e ancora più fatica c’è voluta per proporre ai nostri figli cose che erano sempre state considerate “da femmine”: che ci riusciamo o no, è sempre una scelta ragionata e consapevole. Per loro è come essere pesci nell’acqua, se glielo fai notare ti guardano chiedendosi cosa c’è di strano. Certo, non hanno un grande ottimismo verso il futuro; e come dargli torto? Però torno sul punto: alziamo il culo e andiamo a fare “quel che va fatto”, a parlare ad alta voce, a costruire pezzi di presente e di futuro più aperti, solidali, sorridenti.
Marika Surace
Forse anche tu quando leggi certe notizie ti ritrovi con la bava alla bocca in preda alla possessione demoniaca del giustizialismo, e vorresti prendere certe persone e buttarle in qualche segreta di un castello medioevale; è anche per questo che leggo sempre con molta attenzione chi di legge se ne intende e può aiutarmi a ragionare mantenendo un equilibrio, per quanto precario. Maria Marìka Surace è avvocato penalista, si occupa, tra le altre cose, di Diritto Penitenziario e collabora con la Ong European Lawyers in Lesvos come legale esperto in diritto d’asilo e ricongiungimento familiare. La trovi anche qui e qui.
Quando penso a professioni come la sua, mi domando sempre come sia possibile non farsi sopraffare dall’incontro con esperienze così drammatiche, in un contesto storico e politico di totale disumanità e incompetenza, in cui le decisioni sembra siano prese sempre sulla pelle dei più disgraziati, come abbiamo visto negli ultimi tragici mesi, segnati da naufragi che non fanno più notizia e la VERGOGNA oscena dei suicidi in carcere (non solo tra i detenuti). Ciao Marìka, grazie di essere qui. Raccontaci qual è il tuo superpotere:
Magari ce l’avessi, il superpotere! A parte gli scherzi, credo che quello che nella mia professione mi aiuta di più, perché di questo si tratta in fondo, sia l’avere sempre, in maniera così ostinata da sembrare perfino ottusa, fiducia nelle possibilità di cambiamento delle persone. Non si tratta di redenzione, non credo in questo linguaggio che fa ruotare tutto attorno al pentimento, poiché non è di questo che parliamo: ci sono persone che compiono un reato e, dopo un determinato percorso, che in alcuni casi dura anni, sono proprio diverse da com’erano al momento in cui sono successi i fatti che li hanno portati nel circuito penale e, spesso, penitenziario. Non è questione di pentirsi o meno, dunque, ma proprio di vedere le cose diversamente perché si è realmente diversi. Perché c’è stato qualcuno che ha deciso di darti un’altra possibilità, di starti accanto in un percorso in cui ti vengono dati gli strumenti che prima di allora non avevi avuto. Banalmente, ci sono persone che, condannate per reati anche gravi, in carcere iniziano a lavorare. O incontrano la fede. O l’amore. O la passione per la cucina! E tutto, da quel momento, per loro cambia. Cambiano le prospettive.
Ma così sembra che stia dicendo che il carcere è una cosa bella e no, non voglio essere fraintesa, non lo è. Non lo è affatto. Quello che voglio dire è che quando ci indigniamo di fronte a un titolo di giornale che sintetizza un fatto di reato sottolineandone gli aspetti più crudi, e per questo gridiamo con una certa leggerezza «buttiamo via la chiave», non ci rendiamo conto che nulla nega in modo più netto l’umanità nel senso più profondo del termine. Gli esseri umani racchiudono in sé potenzialità enormi, nel bene e nel male. Ce ne dimentichiamo sempre quando, da un piedistallo barcollante, li giudichiamo per quello che fanno, dimenticando che i fattori che condizionano la vita di una persona sono tantissimi. Non è una giustificazione, ma per giudicare una vicenda, bisognerebbe forse conoscerla a fondo. Non dico per immedesimarsi (sebbene a volte, con le dovute proporzioni, sarebbe utile anche quello), ma proprio per capire cos’è successo davvero. Quante volte accade che leggiamo una notizia, su qualsiasi argomento, ne facciamo un caso di stato e poi, qualche giorno dopo, viene fuori che le cose non erano proprio andate come era stato raccontato? Ecco, immagina quante volte questo succeda con i reati da prima pagina. E, incredibilmente, non impariamo mai dalla volta precedente, come se il bisogno di arrabbiarsi, di protestare, ci rendesse impermeabili all’apprendimento, quello minimo, dato dall’esperienza. Penso a uno dei podcast più di successo in Italia, quello di Stefano Nazzi, Indagini. Basta ascoltarne una sola puntata per capire quali siano le sue intenzioni, tra l’altro a mio parere pienamente riuscite: descrivere quanti errori, quanti fraintendimenti, quanti pregiudizi intervengano quando si compiono delle indagini. Quanti innocenti vadano in carcere per sbagli a volte banali. Quanti diventino protagonisti di gogne mediatiche a cui è preferibile il carcere, perché dal giudizio degli altri che hanno visto in te il mostro non ti salvi più. Nemmeno se poi sei assolto. Ecco, vorrei solo che la gente imparasse a essere indulgente nel giudizio, un’indulgenza che tanto non condizionerà le pene, perché per quello c’è il giudice. Che, credimi, soprattutto oggi indulgente non è. Una sorta di sospensione del giudizio, ecco. In ogni caso, «buttare via la chiave» è una frase che condanna tutti, perché dice che «non c’è scampo, non ci si salva, una volta in acqua si annega». E, soprattutto, è una frase che può dire solo chi non sa cos’è il carcere, chi non ne conosce nemmeno i contorni, l’isolamento, l’alienazione che comporta. Una cosa mi preme dire: fin da quando sono diventata avvocato, ma perfino prima, quando ero praticante, mi sono appassionata alla giustizia riparativa. Qui sarebbe lunghissimo da spiegare che cos’è, ma per conoscerla consiglio due libri: Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto e Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo, di Adolfo Ceretti. La cosa che posso dirti oggi, quella che secondo me è più importante, è che solo la giustizia riparativa dà un ruolo vero alla vittima in un fatto di reato. Un ruolo che mira, appunto, a farla uscire da quello di vittima, un ruolo attivo, partecipe, non appiattito sullo sfondo di un processo penale. Un ruolo attivo che non dipende certo dal fatto che l’autore del reato stia a vita in carcere. Anche perché quella è un’altra cosa, quella è vendetta. Solo l’incontro tra i due inevitabili soggetti di un reato, autore e vittima, può dare il giusto peso a quello che è successo. Non è sempre facile, ma garantisco che una volta che si guardano le cose da quella prospettiva, si amplia tantissimo la propria visione. E con questo rispondo a chi dice «e allora le vittime?». Le vittime hanno diritto di voltare pagina, e non di essere vittime per sempre. Io parlerei per ore di questo argomento ma non è il caso, vorrei consigliare tre libri a chi vuole avvicinarsi un po’ all’argomento carcere in modo ‘leggero’, con curiosità. Un romanzo, un saggio e un epistolario. Il primo, di Marco Malvaldi e Glay Ghammouri, è Vento in scatola. Il secondo è Vendetta pubblica. Il carcere in Italia di Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna. E poi Fine pena: ora di Elvio Fassone.
Mi rendo conto di non aver parlato molto di stranieri, ma ecco: non vale forse la stessa cosa? Quella per cui non cerchiamo nemmeno di comprendere, di immedesimarci, di capire cosa c’è dietro ai numeri? Innanzitutto un giro in carcere mostrerebbe quello che è anche un dato conosciuto statisticamente: in carcere ci sono soprattutto stranieri. E non perché, come risponderebbe qualcuno, sono quelli che compiono più reati. Ma semplicemente perché spesso chi è qui senza documenti (a volte in attesa di averli) non può lavorare, se non in nero. E quando non si può lavorare o si lavora in un libro senza regole, il reato non è un’opzione così remota. Poi la difesa: non tutti gli avvocati hanno le stesse risorse, gli stessi strumenti e la stessa vocazione. Lo straniero spesso non ha accesso a una difesa efficace, che tenga conto anche del suo status. Così, per scelte scellerate o miopi o semplicemente distratte, ci si ritrova, anche qualche anno dopo la commissione di un reato, a scontare una pena in carcere. Poi semplicemente l’indigenza: chi non ha una casa, una dimora fissa, una rete di familiari o amici, non ha accesso alle misure alternative al carcere. Così a volte succede che chi ha compiuto reati anche gravi ma ha più risorse, anche solo economiche, possa tenersi lontano da una cella. Se parliamo di giustizia, allora dovremmo pensare anche a questo, no?
Mi aggiungo anche io agli ottimi consigli di Marìka, segnalandoti questa uscita di Campanili, il progetto giornalistico di Night Review.
Claudio Colazingari
Tra gli argomenti che mi assillano di più c’è la scuola, e se hai anche tu in casa qualcuno che ancora studia, saprai benissimo quanto sia FONDAMENTALE il ruolo degli insegnanti nell’accompagnare studenti e studentesse nel faticoso percorso dell’apprendimento, non solo delle nozioni ma proprio dello stare al mondo, in una comunità che, soprattutto per i più giovani, inizia a mostrarsi loro come un sistema di regole e fatti spesso incomprensibili. Per non parlare di ciò che vivono o percepiscono fuori dalle aule. Di tutto il percorso scolastico, le scuole medie sono il momento spesso più bistrattato, e descritto utilizzando un luogo comune che sicuramente conoscerai: un buco nero che non si vede l’ora che passi, insieme alla terribile preadolescenza. Ho invitato quindi uno dei miei amici più cari e che di superpoteri se ne intende davvero, dato che insegna in una scuola media di Roma. Come spesso capita con i migliori amici, è l’opposto di me, nel senso che è totalmente a-social, quindi niente link su di lui (cara grazia che mi ha mandato una foto😀).
Ciao Claudione mio bello, che gioia averti qui. Noi ci conosciamo da svariati decenni e non ho mai avuto dubbi su cosa avresti fatto da grande, ma quando penso al tuo lavoro mi chiedo sempre dove trovi energia, fiducia e motivazione per affrontare con apparente tranquillità il compito improbo di entrare in una classe di ragazzini ogni giorno, cercando di farli appassionare a qualcosa in un contesto difficile come è oggi quello della scuola. Raccontaci qual è il tuo superpotere:
Ciao Stefania, è un piacere essere ospite della tua newsletter. Beh, a dire la verità quando eravamo al liceo non avevo chiaro in mente che cosa avrei fatto “da grande”. Poi l’amore viscerale e irresistibile per Dante ha segnato la mia strada: mi sono laureato in Lettere, ho vinto un concorso e sono entrato nella scuola. Ti confesso che all’inizio l’immagine che mi veniva sempre in mente per spiegare il mio lavoro, quando ho cominciato a insegnare nelle periferie di Roma con ragazzi a rischio di dispersione scolastica, era quella che si trova nel romanzo di Salinger “Il giovane Holden”: hai presente quando Holden non riesce a trovare nemmeno una cosa che gli piacerebbe fare nella vita, poi si illumina e spiega alla sorellina che amerebbe fare “l’acchiappatore nella segale”? Le dice di immaginare questo gigantesco campo di segale, dove stanno giocando migliaia di ragazzini inconsapevoli del burrone in cui termina il campo. Ecco, a lui basterebbe prendere al volo questi ragazzini che corrono verso il dirupo, fermarli e rimandarli a giocare in sicurezza.
Penso che il nostro lavoro consista anche in questo: oltre a insegnare l’italiano, la storia e la geografia il nostro compito è anche quello di evitare che questi ragazzini si facciano del male scontrandosi con la realtà senza aver ancora sviluppato un’armatura per proteggersi, perché il periodo della preadolescenza è davvero difficile, dato che in questa fase i ragazzi oscillano tra il desiderio di allontanarsi bruscamente dai genitori e quello di tornare da loro, spaventati dalle infinite possibilità che vedono davanti a sé. Abbiamo alunni dai dodici ai quattordici anni, spaesati, confusi e irrequieti che chiedono soltanto di essere ascoltati e non possiamo limitarci a insegnare l’analisi logica. Avranno sicuramente maggiore voglia di imparare dopo che avranno capito che sono in classe con un insegnante che si prende cura di loro, che li rassicura e li comprende. Ricordi lo straordinario maestro del documentario “Essere e avere”, capace di parlare nel modo giusto a tutti gli alunni dell’unica classe di un paesino di montagna, dai più piccoli ai più grandi? Ecco, penso che noi insegnanti dovremmo ispirarci alla delicatezza e alla passione che lui dimostra nell’affrontare i problemi quotidiani che la vita di classe gli presenta.
Io, come insegnante, sento una grandissima responsabilità nei confronti dei miei alunni. Per far capire ai miei amici, che pensano che il mio sia un lavoro noioso perché tutti gli anni insegno le stesse cose, quanto sia bello il mio mestiere propongo l’esempio dell’attore teatrale che porta in scena tutte le sere lo stesso spettacolo, ma ogni volta con un pubblico diverso*: gli alunni che sono di fronte a noi cambiano negli anni e abbiamo il dovere di offrire una lezione che sia divertente, interessante e istruttiva al tempo stesso. Questo è il motivo per il quale non mi annoio mai, nonostante io insegni ormai da un quarto di secolo, e ancora preparo le lezioni il pomeriggio per il giorno dopo: perché devo essere preparatissimo sull’argomento di cui parlerò in classe il giorno dopo (devo “fare la memoria” come dicono gli attori), devo essere pronto a rispondere alle domande degli alunni e a risolvere i loro dubbi in una lezione il più possibile dialogata. Tutti vanno coinvolti quotidianamente nell’apprendimento, soprattutto i più fragili, che in determinati momenti saranno anche aiutati dai più bravi, in quella che adesso si chiama peer education (insegnamento tra pari), per creare una comunità di apprendimento veramente efficace. In conclusione, sono stato veramente fortunato nel trovare un mestiere che mi consente di studiare tutti i giorni argomenti che amo, condividerli con i miei alunni, e stare in classe con ragazze e ragazzi che presi nel modo giusto danno incredibili soddisfazioni. Fare “l’acchiappatore nella segale” non è poi così male.
(*qui c’è un piccolo spoiler su qualcosa che leggerai dopo)
Francesca Crescentini
Come sai se mi leggi dall’inizio, questa newsletter nasce come rifugio di sopravvivenza dai social, strumento e luogo amato e odiato dove è nata la mia passione per la condivisione e dove passiamo davvero troppo tempo. Che tu ne fruisca da semplice spettatore o spettatrice oppure da creator combattente la fastidiosa battaglia contro l'algoritmo molesto, ho pensato fosse molto interessante ascoltare la voce di una veterana. Francesca Crescentini, aka Tegamini, non ha bisogno di grosse presentazioni; negli ultimi anni, ho parlato spesso di lei sul mio profilo mentre sproloquiavo contro le fuffinfluencer che non si capisce mai bene cosa facciano nella vita, e dopo tanti anni iniziavo a sentirmi un po’ un disco rotto. Poi è successo quello che è successo e abbiamo avuto la conferma che le nostre energie, le nostre attenzioni e il nostro tempo sarebbe bene dedicarli a chi ha davvero qualcosa da offrirci. Francesca è, nel suo ambito, semplicemente la più brava, anche perché ha mostrato l’indiscussa capacità, mai venuta meno negli anni, di gestire la sua presenza on line con raro equilibrio, garbo e competenza. Non potevo che chiedere anche il suo punto di vista su come resistere rimanendo fedeli a se stesse, in un momento in cui le piattaforme remano contro, la realtà è quella che è, lo spirito spesso non collabora ma la baracca va mandata avanti, in un modo o nell’altro. Ciao Francesca, che bello averti qui! Raccontaci qual è il tuo superpotere:
Ciao a te e grazie per l’ospitalità :)
A superpoteri non sono messa benissimo, temo. Ma posso imparare. Credo sia quella l’unica vera attitudine che ho. Penso dipenda da una buona predisposizione alla scrittura e alla lettura, se proprio devo individuare un punto “d’origine”. Assorbo tutto quello che posso e, nel mio disordine, trovo poi il modo di adattarmi e di ritrovare quello che serve per interpretare il pezzettino di universo che abito. Spesso si tratta di pezzetti di universo che coincidono con esperienze personali di scarsa rilevanza collettiva e, in altri casi, provo a fare il mio per raccontare un contesto che si abita insieme. Non può accadere se ci si sente infallibili o già in possesso di tutti gli strumenti del caso.
Sentirsi perennemente sguarnite può configurarsi come una posizione di “svantaggio”, ma offre anche un’ottima spinta per impegnarsi e apprendere. Lo faccio leggendo - perché la lettura è il primo posto che mi viene in mente quando ho bisogno di ricalibrare la bussola - e lo faccio scrivendo - perché quella è la dimensione che ho individuato per spiegarmi il difficile.
Ci riesco sempre? Macché. Ma ho fatto pace con la gradualità che occorre per metabolizzare sia i mostri che i garbugli complicati. Anche la pazienza penso sia un tratto che ereditiamo leggendo e scrivendo… tutto sommato, quindi, stiamo sempre parlando di quello.
Valentina Cova e Francesco Viletti
Valentina Cova e Francesco Viletti sono miei amici del cuore nonché fondatori di Scarpanō – Teatro e Metodi Attivi, un’associazione culturale di Vigevano impegnata in progetti di carattere artistico, pedagogico e psicologico, che utilizza il teatro sia da un punto di vista artistico e performativo che sociale e terapeutico; in Scarpanò si creano esperienze, percorsi, spettacoli e performance che favoriscono e sviluppano la creatività, la spontaneità e la prosocialità, cioè comportamenti mirati ad ottenere effetti positivi e benefici sugli altri. Qui tutti i posti dove puoi seguirli.
Carissimi, che bello avervi qui. Mi interessava ospitare il vostro punto di vista perché quello che vi impegna duramente da anni è focalizzato moltissimo sul benessere del singolo e dei gruppi. Nel territorio culturalmente e socialmente disastrato in cui viviamo (basti vedere in che condizioni versa il complesso del Castello di Vigevano e l’intera città, che se fosse dei nostri cugini francesi farebbe soldi a palate e invece è sconosciuto persino a molti lombardi) siete un punto di riferimento importante per una comunità che è alla disperata ricerca di spazi di espressione e condivisione. Raccontatemi qual è il vostro superpotere per non demordere:
Stefy, innanzitutto grazie di cuore per l’attenzione che hai voluto dedicarci. Per noi questa attenzione, così come la professionalità che metti in ogni cosa che fai, è tanto vitale quanto essenziale, e ci aiuta concretamente in questo nostro percorso di vita e di lavoro che ha davvero molto a che fare con l’amore, la cura, l’evoluzione e la sopravvivenza. Il nostro superpotere, se così si può dire, è la passione per il teatro, che è la stessa passione che ci ha fatti incontrare e poi decidere di fare questa follia di convertire una fabbrica di scarpe in uno spazio dedicato al teatro e alla creatività.
Mi inserisco per spiegare a te che leggi che la storia del nome “scarpanò” e anche un po’ della città in cui viviamo, la trovi spiegata sul loro sito. Scusate l’interruzione, dicevamo?
Il teatro è relazione e noi ci occupiamo in sintesi di ‘antropologia teatrale’ ovvero dell’essere umano calato all’interno di una qualsiasi situazione di rappresentazione, con tutte le implicazioni personali, umane e artistiche che un simile atto comporta. La nostra quindi, oltre a una passione artistica, è anche una vocazione pedagogica, che ci ha portato fin da subito a collocarci inevitabilmente in un’area artistica che alcuni maestri teatrali del Novecento hanno definito ‘Terzo Teatro’. Questo video, che traduce in chiave visiva il Manifesto di questo ‘arcipelago di isole galleggianti’ credo possa sintetizzare al meglio quello che cerchiamo di fare e proporre da tanti anni:
Quando ci fermiamo a pensare al nostro lavoro teatrale inevitabilmente finiamo col ripeterci nella testa le parole di J.L. Borges che abbiamo utilizzato molti anni fa in un’improvvisazione teatrale al Teatrocontinuo di Padova: “Io posso morire in qualsiasi momento. Ma vivo pensando, anche se è un’illusione, che sono immortale. Forse non si può vivere in altra maniera. Conviene vivere nel futuro, conviene vivere generosamente”. Sì, siamo sempre più convinti che il teatro è di coloro che riescono a immaginare città invisibili, sanno vedere sognare le pietre e sanno farle navigare come vascelli. “Epidauro è nel futuro”. Quindi grazie cara Stefy, grazie di cuore, non sai, o sai meglio di me, quanto persone come noi abbiano bisogno di persone come te per continuare a esistere e resistere.
No, grazie a voi, e non cancello i complimenti solo perché mi sono imposta di editare il meno possibile i contributi dei miei ospiti (ma che fatica, uff 🙈). C’è una frase nel video che avete condiviso che si intitola, direi perfettamente, “Isole che continuano a resistere", che voglio salvare nel mio cassetto della memoria: “L’essenziale a cui restare fedeli”. Credo sia uno dei superpoteri più forti che esistano. Grazie amici, VVB.
E grazie a te di avere letto fino a qui, spero sia stato interessante e stimolante come lo è stato per me. Noi ci rileggiamo domenica prossima con la seconda parte, ma prima ti lascio quello che c’è sempre alla fine di Controra e che oggi, che è l’8 settembre e parliamo in qualche modo di “resistenza”, mi fa piacere condividere con te, perché mai e poi mai dovremmo arrenderci, nelle grandi come nelle piccole battaglie. Lo screenshot è tratto da I giorni veri, il diario della Resistenza di Giovanna Zangrandi:
Stammi bene 🌸.
Mi sono preso il tempo per leggerla tutta difilato: grazie per questi sguardi, che sono un po' tutti racconti di resistenza. E che bella la frase di Giovanna Zanagrandi 💛.
Che numero pazzesco, grazie Stefania! Ti ho letto sotto il mio albero preferito in riva al mare, il mio luogo personale della resistenza